Un sito web veloce è un diritto del cliente ed un dovere dell'hosting provider e non un privilegio alle soglie del 2026 - Managed Server
22 Settembre 2025

Un sito web veloce è un diritto del cliente ed un dovere dell’hosting provider e non un privilegio alle soglie del 2026

Alle porte del 2026 è ormai inaccettabile che gli hosting provider continuino a spacciare come “servizi premium” tecnologie gratuite e standardizzate, penalizzando i clienti con pratiche commerciali obsolete e dannose.

La pazienza è finita

È arrivato il momento di dirlo senza mezzi termini: un sito web veloce non è un lusso da pagare a peso d’oro, ma un diritto basilare di chiunque acquisti un servizio di hosting. Eppure, ancora oggi, una parte del mercato si ostina a vendere come optional “di lusso” sistemi di caching o web server ottimizzati, spacciandoli per innovazioni miracolose sotto etichette pittoresche come Accelerator, Booster, Turbo Engine, Super Cache e via dicendo.

Siamo seri: siamo nel 2026, non nel 2002. È ridicolo continuare a proporre Apache puro e semplice come unica opzione, e poi chiedere 50 o 80 euro al mese per attivare Varnish o LiteSpeed, software open source o low cost che fanno parte dello standard tecnologico minimo per chiunque si definisca provider.

L’alibi storico non regge più

Chi ancora prova a difendere questa prassi si rifugia nel solito alibi: “un tempo non era così semplice”.
Certo, all’inizio degli anni 2000 i contesti erano radicalmente diversi.

Apache regnava sovrano e non aveva concorrenti reali: era la pietra angolare su cui poggiava gran parte del web, una scelta quasi obbligata.
NGINX muoveva i suoi primi passi, guardato con sospetto e percepito come un esperimento più che come un’alternativa concreta.
Varnish non era che un progetto embrionale, conosciuto solo da pochi addetti ai lavori, che ne testavano le potenzialità in scenari di laboratorio.
Parlare di full page cache lato server, per la maggioranza degli operatori, era poco più che un’eresia o un divertimento da “smanettoni”, lontano anni luce dal concetto di pratica industriale o standard commerciale.

Google-Trends-NGINX-VS-Apache

In quel contesto storico, fino al 2005-2006, poteva persino avere un senso considerare queste tecnologie come “aggiuntive” o “specialistiche”. Il mercato era acerbo, gli strumenti non erano maturi, la documentazione era scarsa, e proporre certi approcci richiedeva competenze che non tutti avevano e un livello di sperimentazione che non tutti i clienti erano disposti ad accettare.

Ma il tempo non si è fermato lì. Da allora il mondo è cambiato, il web si è evoluto, e ciò che un tempo era visto come un lusso o una curiosità da tecnici visionari è diventato parte integrante dell’infrastruttura quotidiana. Oggi non stiamo più parlando di chicche per nerd o di strumenti esotici: parliamo di componenti essenziali, consolidate, robuste, che qualsiasi provider serio integra nel proprio stack di default.

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Hosting non è più vendere feature

Offrire hosting non è più come vendere automobili negli anni ’70, quando anche il servosterzo o l’autoradio erano optional da pagare a parte. All’epoca poteva avere un senso spacciare per “extra” ciò che oggi consideriamo parte integrante di un’autovettura. Ma siamo nel 2026, e nel mondo dell’hosting non si compete più su quante feature aggiuntive riesci a spacciare, bensì sulla qualità minima garantita che consegni al cliente al momento della sottoscrizione.

Oggi un provider serio non può permettersi di presentarsi sul mercato con il minimo indispensabile e poi chiedere extra per ciò che altrove è già incluso di default. Non si tratta più di abbellimenti, ma di fondamenta senza le quali un sito non può reggere la competizione.

Un’infrastruttura di hosting degna di questo nome deve fornire:

  • una full page cache lato server già attiva e pronta a fare il suo lavoro senza che il cliente debba supplicare o pagare sovrapprezzi,

  • protocolli aggiornati come HTTP/3 o QUIC, che ormai sono lo standard tecnico globale e non un vezzo per pochi,

  • compressione moderna (Brotli, e meglio ancora ZSTD), strumenti ormai maturi che permettono di ridurre i tempi di caricamento in maniera drastica,

  • la generazione automatica di immagini WebP o AVIF, un meccanismo basilare per alleggerire le pagine senza sforzi aggiuntivi da parte dello sviluppatore,

  • e soprattutto una ottimizzazione minima del TTFB (Time To First Byte) sotto i 200 ms, soglia che rappresenta il confine tra un sito competitivo e uno destinato a perdere utenti ancor prima che si carichi.

Non è filosofia, non è un’aspirazione futuristica, non è un lusso: sono i requisiti di base per rientrare negli standard richiesti da Google, ottenere un posizionamento dignitoso in SERP e rispettare i parametri dei Core web Vitals. Tutto ciò che non parte da queste fondamenta non è hosting, ma solo improvvisazione venduta con il trucco del marketing.

Il danno ai clienti: non è solo lentezza

Chi continua a vendere servizi di caching come optional non solo è poco trasparente non informando il cliente dei danni che subità, ma compie una vera e propria azione dannosa contro i propri clienti. Non si tratta di una scelta commerciale neutrale, ma di un comportamento che ha conseguenze concrete e spesso devastanti.

Un sito lento non è un semplice fastidio, non è un dettaglio trascurabile che si può compensare con un po’ di pazienza da parte dell’utente finale. È una catastrofe annunciata che si traduce in perdite economiche, di reputazione e di opportunità.

Un TTFB alto o un caricamento che supera i fatidici 3 secondi significa:

  • crollo del ranking SEO, con conseguente perdita di visibilità,

  • perdita di posizionamenti chiave, cioè sparire proprio quando un potenziale cliente ti sta cercando,

  • diminuzione drastica delle conversioni, perché l’utente che aspetta troppo semplicemente chiude la scheda e va dal concorrente,

  • abbandono degli utenti, che difficilmente torneranno su un sito percepito come lento o malfunzionante,

  • e in molti casi il fallimento dell’intero progetto online, soprattutto per quelle realtà che basano il loro business esclusivamente sul digitale.

E allora chi è il responsabile di questo scenario? Non certo il cliente, che non ha colpe se si affida a un provider che si presenta come “professionale”, spesso con azioni di marketing auto elogianti, non lo sviluppatore, che può anche fare del suo meglio sul lato applicativo. Il vero responsabile è il provider stesso che, pur avendo la possibilità di attivare sin da subito una cache lato server, preferisce aspettare la lamentela del cliente per rifilargli l’ennesima “opzione premium”.

Un atteggiamento che non solo mina la fiducia, ma rivela un disegno preciso: creare artificialmente un problema per poi vendere la soluzione.

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Non lo dice Managed Server Srl, ma lo dice Google !

Quello che noi di Managed Server Srl sosteniamo e ripetiamo quotidianamente riguardo all’importanza delle web performance non è un semplice slogan promozionale, ma è esattamente ciò che Google afferma da anni nei suoi contenuti ufficiali, in particolare nel progetto Think With Google. Si tratta di una piattaforma editoriale messa a disposizione da Google stessa, che raccoglie dati, ricerche, case study e approfondimenti su marketing digitale, user experience e performance dei siti web, con l’obiettivo di guidare aziende e professionisti verso strategie più efficaci e risultati misurabili. Nelle slide che seguono riportiamo alcune traduzioni salienti di questi materiali, così da mostrare in modo chiaro come i concetti di velocità, usabilità e ottimizzazione non siano opinioni, ma best practice riconosciute e promosse direttamente da Google.

 

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L’asticella si è alzata

A livello internazionale, la partita è chiara e inequivocabile: chi non si è aggiornato è già tagliato fuori.

I provider più moderni offrono LiteSpeed o NGINX con full page cache integrate di default, senza bisogno di upsell, senza trucchi di marketing e senza costringere il cliente a chiedere “l’opzione veloce”. È parte integrante del servizio, così come il motore è parte integrante di un’automobile.

I colossi del cloud spingono da anni su HTTP/3 e compressioni avanzate, rendendo queste tecnologie una normalità quotidiana e non un vezzo da addetti ai lavori. Se loro lo fanno su scala planetaria, con milioni di richieste al secondo, che scusa hanno i piccoli provider che si rifiutano ancora di implementarle?

La concorrenza estera, anche quella low cost, garantisce TTFB sotto i 200 ms persino su pacchetti entry level. Non stiamo parlando di servizi enterprise da centinaia di euro al mese, ma di offerte economiche che, nonostante il prezzo, rispettano già gli standard internazionali.

Chi oggi, in Italia o altrove, prova ancora a spacciare una full page cache come servizio opzionale non solo è fuori mercato, ma prende in giro i propri clienti, condannandoli a giocare una partita già persa in partenza.

L’asticella si è alzata e non tornerà indietro. Non ci sarà un ritorno a un web lento, macchinoso e giustificato con “è così e basta”. Il mercato ha parlato: o si è allineati agli standard globali, o si è irrimediabilmente relegati alla serie C del settore hosting.

Nessuno chiede ottimizzazioni sartoriali

Attenzione: nessuno pretende che un provider diventi il consulente personale di ogni singolo sito, né che si trasformi in uno sviluppatore che passa le giornate a ricucire HTML, ottimizzare CSS a mano o inseguire un CLS ballerino. Nessuno si aspetta che il provider sistemi i Core web Vitals di ciascun cliente come fosse un sarto digitale.

Quello è lavoro da sviluppatori e web designer, ed è giusto che resti a carico loro. Ma fornire le condizioni minime lato server non è un optional: è un dovere morale, prima ancora che tecnico. È la base contrattuale non scritta che ogni provider dovrebbe rispettare: consegnare un’infrastruttura che non penalizzi il cliente ancora prima che inizi a giocare la sua partita online.

Ed è qui che entrano in gioco parametri spesso dimenticati ma fondamentali, come il TTFB (Time To First Byte). Se il server impiega secoli a rispondere alla prima richiesta, tutte le ottimizzazioni a valle diventano irrilevanti. Non importa quanto sia leggero il tema o quanto sia ben scritto il codice: se il TTFB è alto, l’utente percepirà comunque lentezza e abbandonerà il sito. Un hosting che non garantisce un TTFB decente sta di fatto consegnando ai clienti un handicap insormontabile.

La differenza è semplice: partire da una macchina pronta a correre ti permette di aggiungere upgrade, migliorare le performance, personalizzare i dettagli. Ma se ti consegnano un rottame senza motore, puoi anche montare gomme nuove o tarare le sospensioni: non ti muoverai di un metro.

E non vale la scusa del “tema pesante” o dei “plugin scadenti”: quelle sono responsabilità di chi sviluppa o gestisce il sito. Ma non garantire nemmeno gli strumenti minimi di base – tra cui un TTFB sotto controllo, un web server ottimizzato e un database reattivo – equivale a sabotare il cliente dal giorno uno.

È come vendergli un biglietto di sola andata per il fallimento, mascherato dietro offerte “entry level” già nate con la condanna incorporata.

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Il paradosso dei costi nascosti

Molti provider giocano sporco anche sul piano commerciale, e lo fanno con una spudoratezza che lascia senza parole. Si presentano con offerte accattivanti da “50 euro l’anno”, tariffe talmente basse da sembrare quasi un regalo. Ma è solo un’esca, un modo per attirare il cliente ignaro dentro un meccanismo che assomiglia più a una trappola che a un servizio professionale.

Una volta che il cliente ha firmato, e pagato ovviamente in anticipo ecco che parte la sfilata degli upsell folli:

  • +80 euro al mese per attivare una cache che avrebbe potuto essere abilitata in due minuti in fase d’ordine,

  • +20 euro al mese per consentire il supporto a HTTP/3, un protocollo ormai di uso comune,

  • +20 euro al mese per la compressione Brotli o LiteSpeed, tecnologie che altri provider includono senza battere ciglio.

E tutto questo non per un lavoro titanico, non per un’infrastruttura aggiuntiva o per una licenza costosissima: ma per 10 righe di configurazione VCL in Varnish, o per spuntare un semplice flag già presente nel web server.

La trasparenza? Un miraggio. I provider che adottano questo schema si nascondono dietro offerte “entry level” a basso costo, salvo poi spremere i clienti con supplementi ridicoli, facendo apparire come lusso ciò che dovrebbe essere lo standard minimo.

Il risultato è paradossale: un cliente che credeva di aver fatto un affare, che pensava di avere finalmente un hosting economico e funzionale, si ritrova invece a pagare cifre da server dedicato enterprise, senza però ricevere né la qualità né le risorse promesse. In altre parole, un hosting condiviso “truccato”, costruito per illudere, spremere e deludere.

Il vantaggio ambientale (che nessuno dice)

C’è poi un aspetto che raramente viene menzionato, perché non porta profitti immediati e non si presta a essere trasformato in una “feature premium”: la sostenibilità. Ogni volta che una pagina viene servita da cache, si consuma meno CPU, meno RAM e meno corrente. È un fatto tecnico incontrovertibile: un contenuto già pronto da erogare richiede una frazione infinitesimale delle risorse necessarie rispetto a una pagina generata da zero a ogni richiesta.

Tradotto in termini concreti:

  • meno spese per il provider, che non deve sovradimensionare i server per reggere carichi inutili,

  • meno consumo di hardware, che viene stressato meno e dura più a lungo,

  • meno energia elettrica consumata, con conseguente riduzione dei costi operativi,

  • meno emissioni di CO₂ nell’ambiente, perché ogni ciclo CPU risparmiato è energia non sprecata.

Non fornire cache significa dunque sprecare risorse e inquinare di più, moltiplicando i consumi energetici senza alcuna giustificazione tecnica.

A dimostrarlo non ci sono solo teorie, ma dati misurati sul campo: Varnish Software, in collaborazione con Intel e Supermicro, ha pubblicato uno studio che evidenzia come l’adozione di configurazioni moderne e software ottimizzato permetta di ottenere throughput superiori a 1,3 terabit al secondo per server, con un’efficienza di 1,18 Gbps per Watt. Ancora più impressionante è il risparmio complessivo: rispetto alle infrastrutture “legacy”, l’uso di Varnish Enterprise consente un taglio dei consumi energetici fino al 95% lungo l’intero ciclo di vita hardware.

Varnish Cache CO2

Per rendere il concetto tangibile, facciamo un esempio concreto: un sito da 100.000 visite al giorno, se servito senza cache, costringe il server a generare ogni pagina dinamicamente, consumando centinaia di watt/ora per CPU e RAM. Lo stesso sito, con una full page cache lato server, può essere erogato quasi interamente da contenuti già pronti, riducendo i consumi a una frazione minima. Su scala annua, questo significa risparmiare migliaia di kilowattora di energia, equivalenti a tonnellate di CO₂ evitate, semplicemente attivando una configurazione che oggi dovrebbe essere considerata standard.

Alle soglie del 2026, continuare a proporre hosting senza cache non è solo un danno per i clienti: è una scelta irresponsabile anche verso l’ambiente. La cache lato server non è più un lusso, ma un dovere tecnico, economico e ambientale.

È un paradosso che, alle soglie del 2026, non possiamo più accettare. Perché non si tratta soltanto di efficienza o di costi, ma di responsabilità. Continuare a proporre hosting senza cache è come vendere lampadine a incandescenza in un mondo che ha già scelto i LED: un atto di arretratezza tecnica, economica e ambientale allo stesso tempo.

Il modello win-win che nessuno sfrutta

La cosa assurda è che offrire cache e tecnologie moderne non è soltanto giusto: è conveniente per tutti. Non ci sono perdenti in questa equazione, è un modello a somma positiva che crea valore da ogni lato.

Il cliente ha un sito veloce, scala posizioni sui motori di ricerca, migliora i suoi Core web Vitals, e soprattutto converte di più: più vendite, più iscrizioni, più lead. In poche parole, più soddisfazione e più soldi.

Il provider, a sua volta, risparmia risorse: una pagina servita da cache pesa infinitamente meno di una generata ogni volta. Ciò significa meno CPU, meno RAM, meno incidenti e meno ticket di assistenza da gestire. Meno lamentele, meno perdite di tempo, più margini.

Approccio-win-win-cliente-hosting-provider

E non dimentichiamoci dell’ambiente, che beneficia di consumi ridotti e di un minor impatto energetico. In un’epoca in cui la sostenibilità è diventata un criterio di scelta per molti utenti finali, poter dire di avere un’infrastruttura più “green” è persino un vantaggio competitivo.

Eppure, nonostante questa combinazione perfetta, molti provider preferiscono ancora il modello “ti faccio pagare l’aria che respiri”. Perché? Perché accecati dal guadagno immediato, incapaci di guardare al valore di lungo termine, scelgono deliberatamente di trasformare uno strumento che conviene a tutti in un’occasione di speculazione.

Un errore strategico che non solo danneggia i clienti, ma mina la fiducia nel settore stesso, trasformando un rapporto che dovrebbe essere di collaborazione in una continua trappola commerciale.

Il confronto con il mercato internazionale

All’estero, persino i provider low cost hanno ormai capito la direzione: i loro pacchetti includono già cache integrate, supporto a HTTP/3, compressione Brotli, immagini WebP e spesso persino AVIF, tutto senza chiedere un centesimo in più. Non si tratta di offerte di lusso: sono i pacchetti base, quelli destinati a chi paga pochi euro al mese e non ha alcuna pretesa “enterprise”.

In Italia, invece, sopravvive ancora l’archeologia digitale dell’“Hosting Base Apache only”, venduto come se fossimo rimasti fermi al 2003. E non basta: subito dopo arriva la proposta “premium”, ribattezzata con nomi grotteschi e accattivanti — Turbo Booster Accelerator, Hyper Speed Plus, Cache Master — che di fatto non è altro che una cache già pronta spacciata come invenzione proprietaria a 79 euro al mese.

Il risultato? Una concorrenza drogata, in cui i clienti italiani vengono sistematicamente penalizzati rispetto a quelli esteri. Si trovano a pagare di più per avere di meno, con infrastrutture lente, antiquate e mascherate da “innovazione” solo grazie a un’etichetta di marketing.

E non si provi a tirare in ballo la scusa dei costi: LiteSpeed, Varnish e NGINX non costano nulla o quasi. Non è un problema economico, è semplicemente una questione di volontà e di visione. Dove all’estero si investe per offrire uno standard elevato e competitivo, da noi si preferisce spremere il cliente con il gioco degli optional, condannando il mercato interno a restare indietro di un decennio.

Verso un codice etico dell’hosting

Forse è arrivato davvero il momento di parlare seriamente di standard minimi etici per l’hosting. Perché il problema non è solo tecnico, ma culturale e professionale.

Così come un’auto non può essere venduta senza cinture di sicurezza, né un appartamento può essere consegnato senza impianto elettrico e acqua corrente, allo stesso modo un piano hosting non dovrebbe poter essere commercializzato senza almeno tre elementi basilari:

  • una cache lato server funzionante e integrata,

  • il supporto a HTTP/3 (e possibilmente anche QUIC),

  • una compressione moderna come Brotli o ZSTD.

Non stiamo parlando di “plus”, ma di ciò che oggi costituisce la minima decenza tecnica. Non serve una legge per capirlo, non servono regolamenti internazionali o bollini di qualità: serve semplicemente buon senso e rispetto verso i clienti.

Chi non lo fa, chi continua a vendere hosting preistorico con Apache nudo e crudo, senza nemmeno gli standard più elementari, non è un provider: è un venditore di illusioni, qualcuno che campa sulla disinformazione dei clienti e sulla lentezza con cui il mercato italiano recepisce i cambiamenti.

E c’è un punto in più, altrettanto importante: se un provider decide consapevolmente di non offrire un hosting che sia “Google compliant”, cioè capace di rispettare gli standard minimi di performance e SEO richiesti per competere online, almeno dovrebbe avere l’onestà di scriverlo in modo chiaro ed evidente. Un disclaimer trasparente: “Questo piano non è adeguato a obiettivi di business o SEO”.

Perché può anche avere senso in certi casi. Pensa a mio cugino, che fa l’idraulico e vuole solo una landing page da mostrare quando partecipa ai convegni di formazione per installatori e marchi di prodotti idraulici. Non ha ambizioni di posizionarsi, non cerca lead o visibilità online: gli basta un biglietto da visita digitale. In casi simili, un hosting minimale può avere la sua logica.

Ma se invece parliamo di aziende, e-commerce, professionisti che cercano visibilità o clienti, non dichiarare apertamente che un piano è inadeguato equivale a vendere una trappola.

Forse, come settore, dovremmo avere il coraggio di dirlo apertamente: senza questi requisiti minimi, non si dovrebbe neppure poter usare la parola “hosting”.

La verità nuda e cruda

Diciamolo chiaro, senza giri di parole e senza attenuanti:

  • vendere Apache liscio senza HTTP/2 o HTTP/3 nel 2026 è un insulto al cliente, un atto di negligenza travestito da offerta commerciale;

  • chiedere soldi per attivare Varnish o Brotli è una presa in giro, perché parliamo di strumenti già pronti, gratuiti o dal costo irrisorio, che richiedono pochi minuti di configurazione;

  • nascondere i nomi reali dei software dietro etichette ridicole come Turbo Booster o Hyper Cache Pro è pura disonestà, un espediente da marketing da quattro soldi che ha il solo scopo di confondere il cliente e mascherare la realtà.

Non è questione di “strategia di mercato”, come qualcuno prova ancora a giustificarsi. Non stiamo parlando di differenziazione commerciale o di segmentazione dell’offerta. Qui si parla di etica e dignità professionale.

Perché spacciare standard minimi come optional esclusivi significa una sola cosa: approfittarsi dell’ignoranza tecnica del cliente per gonfiare i margini. Ed è un comportamento tanto più grave perché il cliente, fidandosi del provider, crede di acquistare un servizio “avanzato”, mentre in realtà gli stanno vendendo ciò che dovrebbe già essere incluso di default.

Chi costruisce il proprio modello di business su queste pratiche non merita di essere chiamato provider: non è un partner tecnologico, non è un punto di riferimento affidabile. È, né più né meno, un mercante di fumo, che specula sulla disinformazione e sulla fretta di chi cerca soluzioni rapide senza avere gli strumenti per valutare davvero la qualità di ciò che compra.

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Conclusione: basta privilegi, è un diritto

Un sito veloce non è un premio riservato a chi paga di più, non è un lusso da elargire a pochi clienti “premium”. È un diritto fondamentale di chiunque acquisti un servizio di hosting, a prescindere dal prezzo.

Continuare a vendere cache e protocolli moderni come optional non è soltanto un abuso: è una vera e propria distorsione del mercato, un modo di approfittarsi della fiducia dei clienti trasformando strumenti di base in pseudo-servizi esclusivi. È una violazione della fiducia reciproca che dovrebbe esistere tra provider e cliente.

Chi adotta queste pratiche non danneggia solo i singoli clienti, ma mina l’intero ecosistema digitale. Rende il web più lento, meno sicuro, più inquinante e meno competitivo rispetto ad altri mercati che hanno già imboccato la strada giusta da anni. E così facendo condanna non solo chi paga, ma l’intero Paese a giocare un passo indietro nella corsa all’innovazione.

Alle soglie del 2026 non ci sono più scuse, non ci sono più giustificazioni possibili. Le tecnologie ci sono, sono stabili, sono mature, e sono alla portata di tutti.

La scelta, a questo punto, è semplice: o ci si adegua agli standard minimi globali, riconoscendo finalmente che certe funzionalità non sono optional ma condizioni essenziali, oppure si abbia almeno il coraggio di ammettere la verità: non si è provider, ma solo mercanti di fumo, sopravvissuti di un’epoca che il web ha già superato da tempo.

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