28 Settembre 2025

Linux VS UNIX commerciali, quanto ha fatto risparmiare in costi di licenza il sistema operativo Linux?

Come Linux ha rivoluzionato il mercato dei sistemi operativi, abbattendo i costi imposti dai grandi UNIX proprietari e trasformando radicalmente le strategie dei vendor tradizionali.

Linux-VS-UNIX

Introduzione

Per capire quanto Linux abbia cambiato le regole del gioco nei data center e nel mondo IT, bisogna fare un passo indietro. Negli anni ’90 e nei primi anni 2000 i sistemi operativi dominanti in ambito enterprise erano i grandi UNIX proprietari: Solaris di Sun, AIX di IBM, HP-UX di Hewlett-Packard, IRIX di SGI, UnixWare e OpenServer di SCO. In quel periodo, ogni server arrivava con un sistema operativo venduto a parte o in bundle, con costi di licenza spesso legati al numero di processori o di utenti, e con funzionalità aggiuntive da acquistare separatamente.

L’avvento di Linux ha stravolto questo paradigma. Non solo perché l’open source ha reso disponibile un sistema operativo completo senza costi di licenza diretti, ma anche perché le distribuzioni commerciali come Red Hat Enterprise Linux e SUSE Linux Enterprise Server hanno introdotto un modello di subscription molto più competitivo. Questo ha obbligato i vendor UNIX a rivedere radicalmente le proprie strategie di prezzo.

I costi dei grandi UNIX proprietari

Chi lavorava negli anni in cui Solaris, HP-UX, AIX, IRIX o UnixWare erano dominanti ricorderà bene la voce di spesa dedicata al sistema operativo. Non si trattava di pochi spiccioli: spesso si parlava di migliaia di dollari per CPU o per server, a cui si sommavano licenze per moduli aggiuntivi, strumenti di sviluppo e supporto tecnico.

Solaris, ad esempio, prima di essere reso scaricabile gratuitamente con la versione 10 nel 2004, era un prodotto a pagamento. In uno scenario documentato, Sun propose una licenza Solaris 9 per 2.000 server x86 al costo complessivo di circa 800.000 USD, pari a 400-500 USD per server (licenza e supporto inclusi). A ciò andavano aggiunti strumenti opzionali come i compilatori Sun Studio, venduti a parte e dal prezzo intorno ai 2.995 USD.

HP-UX 11i v3, nella versione Data Center Operating Environment, aveva listini ancora più aggressivi: una licenza base poteva costare oltre 14.000 USD per server, a cui si sommavano pacchetti opzionali per l’alta disponibilità, il clustering o la gestione delle partizioni hardware. Anche le versioni più basilari, licenziate per socket, superavano facilmente i 900 USD per processore.

AIX di IBM seguiva un modello legato a core e partizioni logiche (LPAR). Ancora oggi, nei listini di IBM Power Virtual Server, il solo costo di licenza del sistema operativo è calcolato per core e si aggira intorno ai 500 USD l’anno. Negli anni ’90, arrivare ad acquistare addirittura il codice sorgente di AIX poteva significare spendere decine di migliaia di dollari, un dettaglio che mostra il livello di esclusività e costo di quel software.

IRIX di SGI confermava lo stesso trend. Non solo il sistema operativo era vincolato all’hardware MIPS proprietario di Silicon Graphics, ma i listini erano orientati a settori di nicchia (grafica 3D, simulazioni scientifiche) con prezzi che collocavano l’intera piattaforma tra le più costose sul mercato. In questi casi, più che la licenza OS, il vero costo era l’obbligo di adottare server e workstation SGI, con cifre che facilmente superavano decine di migliaia di dollari per macchina.

UnixWare e OpenServer di SCO adottavano invece un modello “a pacchetti di utenti”: 10, 25, 100 o più, con costi che crescevano man mano che aumentava il numero di account. A titolo di esempio, all’inizio degli anni 2000 SCO propose la licenza SCOsource a 699 USD per processore, nel tentativo di monetizzare persino l’uso di Linux.

In parole semplici, tutte queste piattaforme condividevano la stessa logica: prezzi elevati, modelli di licensing rigidi e forte legame con l’hardware del vendor. Su data center di decine o centinaia di server, la sola voce “sistema operativo” poteva valere centinaia di migliaia di dollari l’anno, senza considerare moduli opzionali e strumenti di gestione.

Il modello Linux: community e distribuzioni commerciali

L’arrivo di Linux ha portato un approccio completamente diverso. Da una parte c’era la versione pura open source, scaricabile e installabile liberamente. Questo significava, per la prima volta, la possibilità di avere un sistema operativo server completo senza pagare licenze. Dall’altra parte c’erano le distribuzioni commerciali come Red Hat e SUSE, che monetizzavano attraverso subscription annuali per il supporto e gli aggiornamenti.

Nei primi anni 2000, una licenza di SUSE Linux Enterprise Server per un server a due processori costava circa 349-389 dollari all’anno. Red Hat proponeva piani annuali tra i 799 e i 1.299 dollari per server, con differenze legate al livello di supporto e alla virtualizzazione. In ogni caso, si parlava di cifre decisamente più basse rispetto ai costi di un Solaris, un HP-UX o un AIX.

Il vero punto di forza era però l’alternativa community: chi non aveva necessità di supporto commerciale poteva semplicemente scaricare una distribuzione gratuita, come Debian o CentOS (derivato da RHEL), e ottenere un sistema operativo di livello enterprise senza spendere nulla in licenze.

I risparmi diretti

Un’azienda con 50 server dual-socket nel 2005, in ambiente Solaris 10 con supporto premium, avrebbe speso circa 720 dollari per server all’anno solo per il supporto del sistema operativo, per un totale di 36.000 dollari l’anno. Con SUSE Linux Enterprise Server, la stessa infrastruttura avrebbe avuto un costo di circa 17.000-19.000 dollari l’anno. In pratica, un risparmio netto di 17.000-19.000 dollari ogni anno, senza nemmeno considerare i costi aggiuntivi di hardware certificato e di strumenti software accessori che in ambiente UNIX erano quasi sempre a pagamento.

Con HP-UX, il confronto diventa ancora più impietoso. Una singola licenza Data Center Operating Environment superava i 14.000 dollari per server: ciò significa che, per un’infrastruttura da 50 server, solo il costo delle licenze iniziali poteva superare i 700.000 dollari. Una cifra enorme, soprattutto se si considera che un’azienda avrebbe potuto sottoscrivere più di dieci anni di subscription Linux commerciale con la stessa spesa. Optando invece per una distribuzione community come Debian, il risparmio era addirittura totale: zero spesa di licenza, con un investimento ridotto ai soli costi di supporto interno o consulenze esterne.

Nel caso di AIX, i numeri restano altrettanto significativi. Considerando una tariffazione tipica di 500 dollari per core all’anno e un server con 8 core, il costo ammontava a 4.000 dollari annui per macchina. Su 50 server, si parlava di circa 200.000 dollari l’anno solo per la licenza del sistema operativo. Con Linux, invece, una subscription Red Hat Enterprise Linux si fermava a meno della metà, intorno ai 1.299 dollari per server all’anno, portando il costo complessivo a 65.000 dollari. Con una distribuzione community come CentOS o Debian, il divario diventava ancora più evidente: il costo licenze si azzerava, lasciando all’azienda risorse economiche enormi da reinvestire in hardware, sviluppo o servizi.

Anche sistemi come UnixWare o IRIX evidenziavano la stessa sproporzione. Nel primo caso, con il modello a pacchetti di utenti, un’azienda di medie dimensioni con 500 dipendenti poteva spendere facilmente decine di migliaia di dollari in licenze cumulative. Nel secondo caso, l’obbligo di acquistare workstation e server SGI, con costi per macchina che superavano decine di migliaia di dollari, rendeva l’adozione sostenibile solo in settori di nicchia. Con Linux, invece, lo stesso workload poteva essere distribuito su server x86 commodity, riducendo drasticamente sia il costo iniziale che quello ricorrente delle licenze.

In sintesi, i risparmi diretti garantiti da Linux erano tali da poter ribaltare completamente il TCO (Total Cost of Ownership) di un’infrastruttura. Se con UNIX proprietari la voce “sistema operativo” pesava centinaia di migliaia di dollari all’anno, con Linux – specie nella versione community – quel costo poteva essere azzerato, spostando il budget aziendale su settori a più alto valore aggiunto.

I risparmi indiretti

Il vantaggio di Linux non si fermava alle licenze. Ci sono almeno tre aree in cui i risparmi diventavano ancora più evidenti.

  • Strumenti di sviluppo: sui sistemi UNIX i compilatori e i toolchain erano a pagamento. Su Linux, GCC e l’intero ecosistema open source erano inclusi. Per un team di 10 sviluppatori, il solo risparmio sui compilatori poteva valere decine di migliaia di dollari.
  • Hardware: i sistemi UNIX erano vincolati a piattaforme proprietarie (SPARC, POWER, Itanium, MIPS). Con Linux era possibile utilizzare server x86 a costi decisamente più bassi, riducendo il CAPEX hardware.
  • Scalabilità: mentre UNIX tendeva a crescere in verticale con sistemi molto costosi, Linux favoriva la scalabilità orizzontale, con cluster di server commodity. Questo approccio, oltre a ridurre i costi iniziali, semplificava anche la gestione della capacità nel tempo.

L’effetto sulle strategie dei vendor UNIX

Linux nasce nel 1991 come progetto personale di Linus Torvalds e, già dal 1994, con il rilascio della versione 1.0, iniziò a trasformarsi da esperimento accademico a alternativa concreta ai sistemi UNIX proprietari. Nei primi anni la sua adozione rimase circoscritta ad ambienti universitari e comunità di sviluppatori, ma dalla seconda metà degli anni ’90 le distribuzioni cominciarono a diffondersi anche in ambito professionale. In questo contesto nacquero le prime realtà commerciali forti: Red Hat (fondata nel 1993 e consolidata con Red Hat Linux nel 1995, poi con Red Hat Enterprise Linux nel 2002) e SUSE (che diventerà SUSE Linux Enterprise Server e sarà acquisita da Novell nel 2003), introducendo un modello di business basato su subscription, supporto professionale e aggiornamenti certificati.

Tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000, Linux iniziò ad essere adottato in sostituzione diretta degli UNIX commerciali nei data center. Molte aziende, attratte dai costi nettamente inferiori e dal crescente ecosistema di software compatibile, migrarono carichi di lavoro che prima erano dominio esclusivo di Solaris, HP-UX o AIX. Questa pressione costrinse i vendor UNIX a cambiare approccio.

  • Solaris 10 venne reso gratuito per uso generale, nel tentativo di frenare l’avanzata di Linux. Nonostante ciò, con l’acquisizione di Sun da parte di Oracle nel 2010, il progetto entrò in una fase di declino che portò al sostanziale abbandono della piattaforma come opzione mainstream.
  • HP-UX, dopo anni di predominio su architetture PA-RISC e Itanium, ha visto ridursi drasticamente la propria diffusione; oggi sopravvive solo su un parco installato residuale, con fine del supporto atteso entro la fine di questo decennio.
  • AIX di IBM è uno dei pochi UNIX ancora supportati, ma la sua presenza è limitata a clienti storici e ambienti mission critical; la stessa IBM ha progressivamente spostato gran parte degli investimenti sul supporto a Linux, in particolare su Power Systems e zSeries.
  • IRIX di SGI, un tempo sinonimo di grafica 3D e simulazioni scientifiche, ha avuto fine ufficiale nel 2006, quando Silicon Graphics cessò lo sviluppo e, poco dopo, entrò in bancarotta.
  • SCO UnixWare e OpenServer, già in difficoltà, finirono schiacciati sia dall’avanzata di Linux che dalle vicende legali legate alla SCO Group: di fatto, queste piattaforme sono oggi considerate morte, con supporto marginale e nessun ruolo rilevante nel mercato enterprise.

Il modello di licensing stesso mutò: da sistemi operativi venduti come prodotti rigidi e costosi, i vendor furono costretti a proporre formule di subscription simili a quelle introdotte dalle distribuzioni Linux. Tuttavia, questi tentativi non riuscirono a essere davvero competitivi, perché i costi rimanevano più elevati e il legame con hardware proprietario non lasciava spazio alla stessa libertà che Linux offriva.

In definitiva, Linux non solo obbligò i vendor UNIX a ridisegnare le proprie strategie, ma decretò anche la fine o il ridimensionamento drastico di diverse piattaforme storiche: un passaggio epocale che trasformò l’intero mercato dei sistemi operativi enterprise.

Quanto ha fatto risparmiare Linux

Mettere un numero unico al risparmio portato da Linux è difficile, perché dipende dalle dimensioni delle infrastrutture e dal mix di tecnologie adottate. Ma se guardiamo agli ordini di grandezza, si può affermare con certezza che Linux ha ridotto la voce di spesa relativa al sistema operativo di almeno il 50% nei contesti enterprise, e del 100% nei casi in cui si sceglieva una distribuzione community senza supporto a pagamento.

Su data center da decine o centinaia di server, questo significava risparmi cumulati nell’ordine delle centinaia di migliaia, se non dei milioni, di dollari in un ciclo di vita di 5 anni.

A questo si aggiungeva la riduzione del lock-in hardware, la disponibilità di strumenti gratuiti e l’apertura a un ecosistema sempre più ampio. In sintesi, Linux non ha solo abbattuto i costi diretti di licenza, ma ha anche reso l’intero modello economico dell’IT più flessibile e sostenibile.

Conclusione

La vera rivoluzione di Linux non è stata soltanto tecnica, ma soprattutto economica. Ha trasformato il sistema operativo da voce di costo rigida e onerosa a commodity, spostando il valore sul supporto, sull’ecosistema e sui servizi.

Chi proveniva da Solaris, HP-UX o AIX senza vincoli applicativi forti, ha trovato in Linux una via per abbattere drasticamente i costi e aumentare la libertà di scelta. In molti casi, il solo risparmio in licenze di sistema operativo ha giustificato la migrazione, rendendo Linux non solo una scelta tecnologica, ma soprattutto una scelta finanziaria intelligente.

Oggi, guardando indietro, è chiaro che senza l’arrivo di Linux l’industria avrebbe continuato a pagare cifre enormi per sistemi operativi e strumenti di base. Linux ha democratizzato l’accesso all’infrastruttura IT, e il risparmio economico generato nel corso di due decenni è stato immenso.

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