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Negli ultimi anni, forse complice la crisi, l’instabilità economica e una recessione strisciante che attraversa molti settori, abbiamo assistito al consolidarsi e all’espansione di alcuni grandi player internazionali nel settore dell’hosting. Colossi con alle spalle fondi di investimento, strategie di marketing spietate e una mentalità che potremmo definire senza mezzi termini “scalatrice seriale di quote di mercato”.
La strategia? Semplice quanto perversa: andare in perdita. Per anni. Con prezzi che sfidano la logica, l’aritmetica, il buon senso. Offerte “illimitate” a pochi euro, piani che rasentano la gratuità, ma che in realtà nascondono una verità economica ben più inquietante.
Due economie a confronto: reale contro finanziaria
Da una parte c’è l’economia reale: aziende come la nostra, che erogano servizi veri, gestiti da persone vere, con costi vivi, stipendi da pagare, investimenti in sicurezza, performance, assistenza. Il prezzo al cliente è il risultato di una logica imprenditoriale sana, dove ogni euro deve coprire una catena del valore sostenibile. Un meccanismo trasparente, misurabile, dove le risorse impiegate devono generare un ritorno proporzionato, non ipotetico. Dove ogni singolo cliente è seguito e gestito secondo una relazione diretta tra il servizio offerto e il valore ricevuto.
L’economia reale si basa su principi di equilibrio, sostenibilità e responsabilità. Non può permettersi di rincorrere numeri sballati, metriche fittizie, crescite esponenziali non supportate dai fondamentali. Deve bilanciare entrate e uscite, reinvestire i ricavi in infrastruttura e persone, dare risposte concrete ai bisogni reali di chi paga per un servizio.
Dall’altra parte, c’è l’economia “creativa”, quella drogata da iniezioni di capitale, da IPO multimilionarie, da modelli di business che si reggono non sul presente, ma su un’ipotetica promessa futura. Il gioco è noto: si bruciano milioni per anni, conquistando clienti con offerte sottocosto, nella speranza che “un giorno” tutto si trasformi in profitti — giorno che, in molti casi, non arriva mai.
Questa economia vive di storytelling, non di sostenibilità. Non deve rispondere a un bilancio che chiude in attivo, ma a una narrazione che possa attrarre nuovi round di finanziamento, nuove fette di mercato, nuove illusioni di crescita. È un modello che non prevede margine, ma solo espansione; non clienti soddisfatti, ma utenti contabilizzati.
È un’economia alimentata da investitori ignari o troppo ottimisti, che accettano di scommettere sulla “gallina domani” e non sull’uovo oggi. Un’economia che, per esistere, ha bisogno di ritardare il momento della verità il più a lungo possibile, posticipando sistematicamente ogni forma di rendiconto economico. Il valore reale del servizio offerto? Spesso irrilevante. Conta solo il numero di utenti acquisiti, anche a costo di offrire servizi a cifre che non coprono nemmeno il costo dell’erogazione.
Non c’è partita. Ma forse non è nemmeno la stessa partita
La verità è che un’azienda sana, che opera sul mercato con etica e logica imprenditoriale, non può competere su quel campo. E forse, a ben vedere, non deve nemmeno provarci. Non può abbassare i prezzi fino a diventare antieconomica, non può tagliare sull’assistenza fino a compromettere la qualità del servizio, non può snaturarsi al punto da ridurre il cliente a un mero ID dentro un foglio di calcolo, in cui contano solo il costo di acquisizione (CAC) e il lifetime value (LTV).
Chi lavora in modo onesto, chi costruisce infrastrutture solide e forma tecnici competenti, non può reggere un modello dove il prezzo è il solo criterio competitivo. Perché quello non è un modello imprenditoriale: è una scommessa. E per definizione, una scommessa si basa sulla fortuna, non sulla sostenibilità.
Nel momento in cui si accetta questa logica del prezzo al ribasso come unica metrica di competizione, la battaglia è già persa, perché si gioca secondo regole che non premiano il merito, ma la capacità di resistere più a lungo in perdita.
Prendiamo ad esempio alcuni operatori dell’Est Europa (che poi, sul fatto che la Lituania debba far parte dell’Europa, potremmo aprire un capitolo a parte): offrono piani da 8 euro al mese per ospitare 100 installazioni WordPress. Sì, avete letto bene: cento.
Un’offerta che, per chi guarda solo la cifra, appare incredibile. Seducente. Perfino logica, in un mondo in cui tutto è diventato “unlimited”. Ma è una logica tossica, perché chi ci casca scopre troppo tardi cosa si nasconde dietro quelle cifre.
Quello che è chiaro e lapalissiano è che questo modello di business che potete vedere nella tabella sopra di un noto venditore di hosting low cost, dal 2019 al 2022 è stato fallimentare con perdite di ben oltre 45 milioni di euro, e solo nel 2023, a fronte di 110 milioni di fatturato, ha chiuso in utile di 3 milioni, con un margine netto del 3%, ben al di sotto di quelli che sono i margini reali delle aziende di Hosting.
Come ci si può fidare di un’azienda in perdita a questi livelli ? Cosa succede quando qualcosa si rompe? Quando il sito rallenta, quando compare un errore misterioso, quando serve supporto umano e competente?
Succede che non c’è nessuno dall’altra parte ? O se c’è, si limita a rispondere con frasi preconfezionate, oppure a ignorare del tutto. Perché? Perché sei parte di una massa, non di una relazione. Sei un costo da contenere, non un utente da supportare perchè pagante (il giusto) e profittevole.
In un sistema dove ogni ticket aperto è una perdita da tagliare, l’unico obiettivo è ridurre l’interazione al minimo, tenerti a bordo finché paghi — e poi pazienza se non torni.
Concorrenza sleale e dumping
Nel mondo dell’hosting, come in molti altri settori digitali, stiamo assistendo a una degenerazione del concetto stesso di concorrenza: non si compete più sul valore, ma sullo svuotamento del mercato, alimentando una corsa al ribasso che ha poco a che vedere con l’imprenditoria vera.
In teoria, un’attività imprenditoriale dovrebbe essere profittevole. Dovrebbe avere una struttura di costi sostenibile, un margine, una strategia orientata alla crescita sana. E invece, oggi, ci troviamo spesso di fronte a modelli in cui il profitto è un concetto opzionale, rinviato a data da destinarsi — se mai arriverà. Ci troviamo di fronte ad aziende che operano in perdita per anni, con il solo obiettivo di eliminare la concorrenza reale, quella che lavora, assume, paga le tasse, investe e crea occupazione.
È come se, nel centro di una cittadina, un gruppo di investitori decidesse di far fallire l’unica pizzeria della zona, aprendo una nuova pizzeria proprio davanti e regalando la pizza a tutti, ogni giorno, per mesi o anni. Non per costruire un’attività sostenibile, ma per distruggere quella esistente.
Va bene il libero mercato, vanno bene le liberalizzazioni, ma quando il fine diventa l’annientamento dell’altro e non la competizione leale, siamo di fronte a una dinamica tossica e distruttiva.
Come ha giustamente osservato il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, “quando il mercato compete e basta, distrugge”. Perché senza regole, senza limiti, senza etica, la competizione diventa guerra. E in guerra, il valore non ha più posto: vince solo chi resiste di più, anche se brucia milioni nel frattempo.
Cos’è il dumping
Il dumping è proprio questo: una strategia di vendita a prezzi insostenibili, inferiore al costo reale del servizio, con lo scopo di scardinare il mercato e schiacciare i competitor.
Nella teoria economica, si tratta di un comportamento anticoncorrenziale ben noto e, in certi contesti, anche sanzionabile.
Il quadro europeo
A livello normativo, l’Unione Europea regolamenta il dumping nei confronti di Paesi terzi attraverso strumenti come il Regolamento (UE) 2016/1036, applicando dazi antidumping e misure correttive quando vengono riscontrati casi evidenti di concorrenza sleale. Ma quando il dumping avviene dentro i confini comunitari, tra aziende registrate in Paesi UE, le maglie della regolamentazione si allargano, soprattutto nei servizi digitali, dove la territorialità fiscale e operativa è sempre più difficile da delimitare.
Dumping nei servizi: una trappola per tutti
Nei servizi — e in particolare nell’hosting — il dumping è ancora più pericoloso che nei beni materiali, perché le economie di scala non si applicano alla qualità umana, all’assistenza, alla competenza tecnica. Puoi automatizzare una parte del provisioning, ma non puoi automatizzare la relazione con il cliente, la risoluzione dei problemi, la protezione dagli attacchi.
Il risultato? Un mercato inquinato, drogato, in cui chi lavora onestamente viene messo all’angolo, e i clienti sono abituati ad aspettarsi tutto a nulla, salvo poi ritrovarsi abbandonati quando qualcosa va storto.
Chi pratica dumping non sta facendo impresa: sta solo giocando a perdere sperando di vincere per sfinimento. Ma a pagare il conto, prima o poi, saranno tutti: clienti, fornitori, mercato.
Quando sei un costo, non sei più una priorità
Chi si affida a questi provider scopre in fretta che l’equilibrio economico su cui si reggono non contempla l’assistenza, la personalizzazione, la cura del cliente. Non c’è spazio per empatia, relazione o ascolto. L’intero modello è costruito per acquisire, non per mantenere; per fare volume, non qualità.
Un utente che apre 10 ticket l’anno e paga 8 euro al mese è, semplicemente, una vprooce in rosso nel bilancio. Un’anomalia da correggere. Non importa quale sia la complessità tecnica del problema, né quanto sia importante il tuo sito per la tua attività. Se costi più di quanto rendi, diventi immediatamente invisibile.
In nessun modello economico serio – nemmeno nelle economie più povere del mondo – si può giustificare un’assistenza tecnica dignitosa a quelle condizioni. Un’azienda non può dedicare risorse, tempo, competenze, strumenti, logiche di escalation, monitoraggio, se in cambio riceve il corrispettivo di un panino al bar. È semplicemente insostenibile.
E allora cosa succede? Succede quello che è ovvio accada: sei lasciato solo.
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Un attacco DDoS? Troppo costoso da mitigare. Problema tuo.
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Un plugin aggiornato che rompe il sito e vuoi il backup di 40 giorni fa? Non esiste. Problema tuo.
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Il sito è giù e vuoi fare causa? Ti aspettiamo in tribunale, in Lituania, in Romania, in Estonia o qualche altro Paese con giurisdizione non proprio accessibile.
È un modello dove la tua sopravvivenza online non è affar loro. Dove il concetto di “servizio” finisce al momento del pagamento, e oltre quel confine c’è solo la tua solitudine tecnica.
Eppure, questa realtà è abilmente mascherata da landing page patinate, da claim altisonanti e da prezzi troppo belli per essere veri. Ed è proprio lì che si compie il paradosso: molti lo scoprono solo quando è troppo tardi. Quando il sito è offline, quando l’assistenza non risponde, quando il danno è già fatto.
La prima dose, si sa, è gratis. Ma poi arriva il conto. E spesso è salato. E spesso non c’è più nessuno con cui discuterlo o lamentarsi.
Hosting: spesa o investimento?
Il punto è proprio questo: un cliente non deve essere un costo. Deve essere un valore. Ma attenzione: il valore non è mai unilaterale, è sempre un rapporto reciproco. E questo vale in entrambe le direzioni. È una relazione di fiducia che si costruisce nel tempo, e come ogni relazione richiede rispetto, trasparenza e riconoscimento del ruolo di ciascuna parte.
Un’azienda di hosting deve offrire valore — e con valore non intendiamo solo uno spazio su disco e un uptime promesso in percentuale. Quelli sono prerequisiti tecnici, il minimo sindacale. Il vero valore si misura nella capacità di essere presenti quando conta, di anticipare i problemi, di offrire risposte competenti, di trattare il cliente come una persona, non come un ticket numerato in coda.
Parliamo di supporto umano, di performance reali, di affidabilità tecnica, di proattività nella gestione, di una presenza consapevole e responsabile. Parliamo di sicurezza, di attenzione ai dettagli, di aggiornamenti gestiti con criterio, di backup veri, testati, pronti all’uso. Tutte cose che richiedono risorse, competenze, tempo e infrastruttura. E che non si improvvisano.
Ma allo stesso tempo, l’azienda deve potersi permettere di farlo. Deve sapere che chi sta dall’altra parte riconosce e sostiene quel valore. È il cliente che, scegliendo consapevolmente un fornitore affidabile, permette al sistema di funzionare, di migliorare, di crescere. È lui che, pagando un prezzo giusto, sostiene l’assistenza che riceverà, la protezione da attacchi, le ottimizzazioni future, il capitale umano e tecnico su cui si fonda tutto.
Se il cliente non è disposto a riconoscere questo, se sceglie sulla base del solo prezzo, se considera l’hosting come una semplice commodity da acquistare al ribasso, allora sta dichiarando implicitamente che quel servizio per lui è una spesa, non un investimento.
E allora — come in ogni rapporto commerciale sbilanciato — non c’è equilibrio, e non ci può essere qualità. Un servizio non può essere eccellente se viene trattato come un bene usa e getta. Una relazione non può crescere se si fonda su un sospetto reciproco o su un approccio del tipo “spremi tutto finché dura”.
Chi guarda solo al prezzo sceglie già, in partenza, di accettare un livello minimo, una soglia tecnica e relazionale appena sufficiente per tenere in piedi il contratto. E allora non sorprendiamoci se il servizio ricevuto è esattamente proporzionale all’importo pagato. Non è una punizione: è il risultato naturale di una scelta economica precisa.
Un hosting può sembrare uguale a un altro — almeno finché tutto va bene. Ma quando le cose iniziano a scricchiolare, la differenza tra una spesa e un investimento si manifesta in tutta la sua evidenza: chi ha investito ha qualcuno al suo fianco. Chi ha speso… ha solo uno sconto da ricordare.
Il valore è una strada a doppio senso
Fornire un servizio di valore significa assumersi delle responsabilità reali. Significa essere presenti, agire con competenza, rispondere con umanità. Non è questione di marketing o di promesse da homepage: è ciò che accade quando il cliente ha davvero bisogno. E lì si vede la differenza tra un fornitore e un partner.
Fornire un servizio di valore significa:
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essere reperibili quando serve, non quando conviene;
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intervenire prima che il cliente si accorga del problema, anticipando le criticità e risolvendo con prontezza;
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costruire una relazione, non una semplice voce su un gestionale, non un ID in un CRM impersonale che nessuno legge;
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avere personale qualificato, formato, motivato, in grado di comprendere i problemi e proporre soluzioni reali — non solo copiare/incollare la risposta standard della knowledge base.
Tutto questo non nasce dal nulla. Ha un costo, e ha un valore. Richiede infrastruttura solida, organizzazione, turni di reperibilità, formazione continua, strumenti professionali. Non si può improvvisare, non si può svendere. E soprattutto: non si può fingere.
Se vogliamo che il web — e l’economia digitale nel suo complesso — sia affidabile, performante e sicura, dobbiamo iniziare a pagare per il valore, e non solo per il prezzo.
Perché chi compra solo in base al prezzo, sta comprando solo un prezzo. E al primo vero problema si accorgerà che, dietro quel prezzo, non c’era nulla.
Tutto bello, tutto infinito, ma quello che conta sono solo i contratti
Le campagne marketing sono accattivanti. I messaggi parlano di risorse illimitate, di performance straordinarie, di assistenza 24/7, di tecnologie di ultima generazione e di migrazioni gratuite in un clic. Tutto bello. Tutto infinito. Ma quando le cose vanno male — ed è solo questione di tempo — non conta più quello che è stato promesso, ma quello che è stato firmato.
Nel mondo reale dell’hosting, quello che conta è il contratto. E la verità è che nella stragrande maggioranza dei servizi low cost, quel contratto dice chiaramente che loro non sono responsabili di nulla. Né della perdita dei dati, né del downtime, né della mancata assistenza, né di eventuali danni diretti o indiretti. È tutto sulle spalle del cliente. L’illusione dell’infinito svanisce alla prima riga delle clausole di esclusione di responsabilità.
Gli SLA? Spesso sono assenti, vaghi, o costruiti in modo tale da non garantire alcun reale risarcimento. Basta leggere con attenzione per rendersi conto che il modello di business è basato sul non dover mai rispondere di nulla, anche quando tutto va a rotoli.
In definitiva, puoi anche aver pagato poco, ma se ti ritrovi solo nel momento del bisogno, hai comunque pagato troppo. E nessuna promessa pubblicitaria ti verrà in soccorso se non è supportata da un contratto serio, trasparente e responsabile.
Don’t feed the troll. Una regola che sempre vale.
Di fronte a dinamiche di mercato ormai chiaramente viziate da dumping e concorrenza sleale, abbiamo assistito con un certo sgomento a un paio di piccoli fornitori italiani tentare di emulare i grandi player internazionali — ma con un approccio ancora più estremo e pericoloso.
Parliamo di offerte tipo “HOSTING GRATIS per un anno”, con un rinnovo al secondo anno a pochi spiccioli, del tutto incongruo con qualsiasi logica di sostenibilità, di qualità e di valore reale.
Chi lavora nel settore sa perfettamente che non esiste alcun modello sano in cui puoi erogare hosting gratuito a tempo indeterminato, sperando poi che i rinnovi minimi bastino a tenere in piedi un’azienda. È una trappola. Una recita a cui crede solo chi è disposto a chiudere gli occhi sulla realtà e a vivere di illusioni digitali.
E in questi casi, vale una regola antica e sempre valida:
Don’t feed the troll.
Chi propone questo tipo di offerte non cerca valore, cerca solo attenzione. Vuole che qualcuno reagisca, che si abbassi al suo stesso livello, che inizi la guerra del centesimo. E quando lo fate, state dando loro esattamente quello che vogliono: legittimazione.
Abboccare a questo tipo di competizione significa solo una cosa: che prima o poi qualcuno inizierà a legare il cappio al soffitto. Perché un’attività imprenditoriale anti-economica, o che si basa sulla speranza che “il successo arriverà dopo” senza avere qualità alla base, non ha modo di esistere nel tempo. È una bomba a orologeria. E quando esplode, lascia solo clienti delusi, fornitori danneggiati e un mercato un po’ più inquinato di prima.
La nostra posizione è chiara: non ci abbassiamo a quel gioco. Non rispondiamo. Non alimentiamo quel fuoco.
Non diamo da mangiare ai troll. E chi ha visione imprenditoriale, dovrebbe fare lo stesso.
Vi lamentavate dei prezzi bassi di Aruba.
Per anni li abbiamo sentiti frignare. “Eh ma con quei prezzi Aruba ci rovina il mercato…”, “È impossibile competere con chi fa hosting a due spicci…” — sembrava quasi che Aruba fosse il male assoluto del settore.
Poi però, sorpresa: gli stessi che si lamentavano dei 40 euro l’anno, oggi si sono messi a regalare l’hosting. Proprio così. Gratis. Hosting “tutto incluso” a zero euro per un anno, con rinnovo a pochi centesimi, che manco il distributore automatico delle merendine.
Altro che Aruba: almeno loro un’infrastruttura vera ce l’hanno. E soprattutto, almeno ci mettono la faccia, i datacenter, e un modello aziendale che — ci piaccia o no — esiste da decenni e non si regge su illusioni e capitali in vena.
Ma voi no: vi siete lanciati nel ridicolo gioco al ribasso pensando che bastasse mettere “hosting gratis” su una landing page per essere improvvisamente interessanti.
Avete fatto peggio. Molto peggio.
Avete preso un settore già difficile, già inflazionato, e l’avete trasformato in un circo da bancarella, dove si distribuiscono pacchetti “freemium” come fossero volantini davanti al discount.
Complimenti! Davvero: la categoria vi ringrazia.
Quando tra un anno sarete spariti, o quando deciderete di rincarare tutto perché vi siete accorti che i server, lo staff e l’energia elettrica si pagano anche nel vostro mondo fatato, ci saremo noi a raccogliere i clienti delusi e abbandonati, a spiegare che esiste ancora chi fa hosting con criterio, con dignità, con un’idea di futuro che non preveda il default come tappa obbligata.
Il tempo è un maestro severo, sii il cliente che vorresti avere
C’è una cosa che nessuno ha il coraggio di dire apertamente, ma che tutti nel settore sanno benissimo: non tutti i clienti sono uguali.
C’è chi paga 30 euro l’anno e chi ne paga 3.000 al mese. Eppure, la narrazione dominante — alimentata da marketing piatto e piattaforme industriali — vorrebbe far credere che siano tutti trattati allo stesso modo.
Mai menzogna fu più grande. La vita vera è fatta di priorità. E nel mondo reale, un cliente ad alto valore sarà sempre più tutelato, più seguito e più importante di un cliente basso spendente.
Se così non fosse, anche noi saremmo ancora qui a proporre pacchetti da 30 euro all’anno come facevamo agli albori, tra il 2005 e il 2017. Ma abbiamo scelto un’altra strada, perché abbiamo capito sulla nostra pelle che le economie di scala possono forse funzionare per i prodotti, ma non funzionano mai nei servizi.
Un servizio richiede tempo, persone, competenze, attenzione, relazione. E tutto questo non si moltiplica premendo un tasto: si costruisce, si sostiene, si mantiene — cliente per cliente.
Se c’è una cosa che la storia economica continua a insegnare è che l’equilibrio, prima o poi, si ristabilisce. Le aziende che reggono modelli basati sulla perdita sistemica, sulla quantità e su una finanza fantasiosa, prima o poi dovranno fare i conti con la realtà. E in quel momento, avranno solo due possibilità: trasformarsi radicalmente o sparire.
Nel frattempo, chi sceglie un fornitore serio, solido, coerente — capace di dare valore e riconoscerlo — costruisce un rapporto che non si rompe al primo problema, ma si rafforza proprio nei momenti critici.
Noi continuiamo a credere in un modello dove il cliente è un valore reale, non un indicatore finanziario. Non svendiamo ciò che sappiamo fare. Non promettiamo l’impossibile. Non inseguiamo la massa.
Chi sceglie questa visione con noi, alla lunga, vince. Non perché costa meno, ma perché vale di più.